Quando ero una Export Manager, un giorno mi trovai nel bel mezzo di una bellissima fiera enologica. C’erano produttori da ogni parte d’Italia e anche alcuni Importatori che presentavano il loro catalogo di etichette estere.
Io quel giorno ero lì in visita. Non avevo appuntamenti, né una postazione da preservare e così, con curiosità, mi ero procurata un calice e mi aggiravo per le sale cercando emozioni e spunti interessanti. Adoravo poter fare la “turista del vino” e lasciare che il mio intuito mi guidasse negli assaggi. A volte sceglievo un’annata particolare e degustavo tutti i vini di quella vendemmia… altre volte uno stile di vinificazione… una regione… uno specifico vitigno… Quel giorno avevo scelto di dedicarmi alle bollicine.
Iniziai il mio viaggio assaggiando i diversi spumanti presenti realizzati con il Metodo Classico: quel lungo, quanto affascinante procedimento enologico, che prevede, partendo da un vino fermo, aggiungendo zuccheri e lieviti, la ri-fermentazione in bottiglia, l’ottenimento dello stimolante perlage.
In un angolo, all’ultimo piano dell’esposizione, quel giorno, trovai un signore. Da subito capii che era un professionista con una grande esperienza nel suo mondo. Tra le diverse bottiglie che esponeva, una in particolare catturò la mia attenzione. In un cestello, uno spumante chiuso era lì fermo, in attesa di essere aperto.
Intorno a me si era formato un gruppetto di persone. Eravamo tutti lì ad aspettare la stappatura. Il signore ci spiegò che si trattava di uno champagne di un piccolo produttore francese che aveva riposato 18 anni sui lieviti. In bottiglia, quel vino aveva raggiunto la sua maggiore età, prima di essere sboccato e presentato, dopo altri 3 anni, al mercato.
21 anni di attesa. 252 mesi. 91980 giorni.
Mancavano 5 minuti all’ora in cui l’importatore aveva scelto di aprire quell’etichetta e già intorno a me qualcuno aveva iniziato a sbuffare.
Ma in fondo, cos’erano mai cinque minuti se confrontati con il tempo che aveva dovuto aspettare il produttore?
Finalmente alle 14.30 il tappo volò via. Un giallo dorato con un delicato perlage venne versato nei calici dei diversi spettatori enoici. Lasciai che il naso esplorasse quel prodotto così maturo. La crosta di pane, le note burrose, si amalgamavano tra loro, insieme ad una nota di evoluzione. Non era sicuramente uno spumante facile: la sua lingua non era immediata e le sue bollicine non salivano con quella esuberanza che spesso ci si aspetta… Potremmo dire che avevamo di fronte un vino dalla personalità introversa, riservata.
Io ero così affascinata dall’idea di avere nel calice il frutto elaborato di ben ventuno anni prima, che restai diversi minuti in ascolto. Ascolto attivo. Non ero lì solamente con i miei cinque sensi. Totale in quello che stavo facendo, immaginavo il momento della vendemmia, i grappoli dorati raccolti meticolosamente… la delicata pigiatura… le aspettative di tutte le persone che avevano contribuito a quella elaborazione… alla trepidante attesa che aveva caratterizzato l’affinamento di quel nettare degli dei… quando sentii dietro di me due ragazzi iniziare a dare i loro verdetti. Il vino era stato stappato troppo caldo. Il suono del sughero non era stato di loro gradimento. I profumi troppo evoluti, non erano complessi come si sarebbero aspettati. Al gusto il perlage non era abbastanza vivace, le bollicine non erano troppo fini, l’acidità… etc… etc…
I commenti continuarono a lungo. Toccarono tutti gli aspetti di quel prodotto. Compreso il packaging e le scelte del produttore. Perfino la strategia commerciale dell’importatore. Nulla si salvò dal loro giudizio.
Ancora oggi, dopo tanti anni, solamente richiamando alla memoria quell’episodio, avverto del dispiacere e penso a quanto sia facile e immediata la nostra tendenza a voler giudicare.
In un mondo di “tuttologi”, dove con facilità possiamo accedere alle più disparate informazioni, tutti ci sentiamo nella posizione di poter dire la nostra, criticare l’operato altrui ed evidenziare gli errori, i difetti, le mancanze.
Quando lavoravo nel mondo del vino, innumerevoli volte assistetti a persone che si sentivano nella posizione di poter dire qualsiasi cosa passasse loro per la mente, solamente perché erano dei “consumatori” che avevano letto alcune nozioni ed erano dunque abilitati all’esprimere la loro opinione. A prescindere.
Eppure, soprattutto il vino, mi ha insegnato che tutto è relativo e che quello che noi siamo soliti giudicare è solamente una piccolissima parte di qualcosa di molto più ampio. Molto più complesso. Con tantissime variabili. Non tutte legati all’essere umano.
Così desiderosi di dire la nostra opinione, di affermare il nostro giudizio, ci dimentichiamo di ascoltare, di metterci in comunicazione con chi abbiamo di fronte, di calarci nei panni delle persone e delle storie che ci vengono raccontate, presentate… e procediamo. Come dei caterpillar talvolta, emettiamo sentenze. Condanniamo comportamenti. Ci eleviamo su un piedistallo come se da quella posizione noi potessimo guardare tutto da un altro punto di vista. Superiore.
…e invece ci dimentichiamo che da lì, da quel trespolo sul quale spesso ci collochiamo, non solo non è detto che abbiamo una visione sufficientemente ampia e completa, ma soprattutto tendiamo a non considerare che da lì, cadere, è pericoloso.
Fare qualche domanda in più, a volte è più importante (anche per coloro che abbiamo di fronte) piuttosto che voler dare continue risposte.
Ascoltare realmente la persona con la quale stiamo parlando, può essere di maggior conforto, ancora di più che suggerire soluzioni o alternative.
Godersi l’attimo presente, quello che ci arriva in modo gratuito e disinteressato, spesso è molto più appagante dal voler fare i critici. Anche enogastronomici.
Stare con quello che c’è, ampliare la nostra capacità di accogliere quello che ci arriva, guardare al mondo con maggior dolcezza, non soltanto ci aiuta nel vivere la vita con una diversa qualità, ma anche e soprattutto, ci predispone alla gratitudine, al cogliere la risorsa, al percepire la bellezza, gli aspetti che ci nutrono, che ci appagano, che ci soddisfano. Nelle nostre relazioni di tutti i giorni, per non parlare di quelle più intime, abbassare il volume del nostro giudice, ci permette di poter raggiungere una diversa intimità, abbassa le difese, favorisce il dialogo, lo scambio, la confidenza e il desiderio di condividere episodi, esperienze, momenti di vita.
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Giulia Di Sipio, Counselor Relazionale Mediacomunicativo, Coach Relazionale Senior (posizione n°275 Ancore), specializzata in Counseling Gastronomico, concepisce il Cibo come una fonte di nutrimento olistico e uno strumento di lavoro su sé stessi: attraverso il processo alchemico che avviene in cucina, l’uomo sperimenta, trasforma, crea…e potenzia le sue abilità, la gestione delle sue risorse, la capacità di organizzazione, il problem solving.